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Le Biblioteche in Età Contemporanea/parte prima

Età Contemporanea: a) L’Inghilterra dell’età Vittoriana e le biblioteche popolari[1]

 

Per inquadrare il fenomeno delle biblioteche nell’Inghilterra dell’800 e il loro rapporto con la classe dirigente dobbiamo premettere alcune brevi ma importanti notizie. La situazione sociale vede la classe di lettori molto composita e i gusti del pubblico mutevoli. Tanto per soffermarci su come si arriva ad una situazione del genere, il dato che nel 1901 i cittadini saranno tre volte e mezzo quelli di un secolo prima dovrebbe farci capire lo sviluppo del fenomeno della lettura. Accanto all’aumento demografico aumenta pure la borghesia rispetto alla classe operaia. E aumenta la disponibilità di istruzione tanto che nella prima metà dell’800 l’alfabetizzazione sarà un processo avviato pure per la classe operaia. La rivoluzione industriale fa si la disponibilità economica della borghesia aumenti, dando la possibilità di operare assunzioni di molti domestici, in fuga dalla agricoltura, che si alfabetizzeranno leggendo i giornali dei padroni. Con l’800 potremo dire che la coscienza di classe si acutizzi moltissimo creando tensioni politiche e pulsioni verso una maggiore istruzione.

Le condizioni che favoriscono la diffusione dell’abitudine alla lettura sono molteplici. Prima tra tutte l’aumento del tempo libero della borghesia dovuta alla delega dei lavori domestici a personale di servizio e, per la classe operaia, la progressiva riduzione dell’orario di lavoro che dal 1830 è fissato in 10 ore e dal 1847 scese ulteriormente permettendo così di aumentare le ore dedicate alla lettura. Diciamo poi che non c’erano molte attrazioni nei giorni di riposo, tant’è che il pub o la strada erano gli unici posti di ritrovo.

Le difficoltà per i ceti popolari poi si moltiplicavano; è pur vero che dal 1850 nasce come momento di svago per i pendolari la cosiddetta “letteratura ferroviaria” ideata per tenere compagnia ai pendolari. Per la classe rurale poi non c’è nessuna novità apprezzabile per l’alfabetizzazione. Susseguono comunque appelli da parte di scrittori e oratori circa l’utilità e il gusto della cultura. Ma le lettura ha molte difficoltà: in primis la stessa struttura delle abitazioni, i cottage, sono tutt’altro che concilianti con i lettori perché sono tuguri o tutt’al più laboratori. E la tassa sulle finestre non aiuta certo a creare ambienti casalinghi luminosi per leggere. Non parliamo poi del costo degli occhiali tanto che la lettura sarà limitata fini alla prima metà del XX secolo. Poi c’è il fattore della stanchezza legata alle lunghe ore di lavoro senza intervalli. Infine una difficoltà non trascurabile deriva dai problemi legati alla inurbamento del ceto che prima era agricolo che rende difficile la lettura. Con questo processo si ha la spersonalizzazione dell’individuo che spaesato dalla nuova situazione si da al bere e alla promiscuità sessuale. Ecco che entra in gioco il libro che è utile nel corso dell’800 ad alleviare questo stato di fatto: aiuta a sognare e a rendere meno opprimente la realtà.      

Entriamo ora nel vivo: come si costituirono le biblioteche pubbliche in Inghilterra. E’certamente un processo lungo e travagliato che vede il suo avvio dal XV secolo  quando la costituzione di biblioteche avveniva per disposizione testamentaria spesso con l’obbligo di apertura al pubblico. Bristol ha tra i primi esempi di ciò nel 1464 e nel 1613. In realtà queste biblioteche servivano poco al pubblico perché mancavano di fondi sufficienti per la manutenzione e non erano aperte a tutti. Interviene la Camera dei Comuni che con il Public Libraries Committee del 1849 ne critica la loro struttura e avvia un’indagine che fa emergere problematiche come alla biblioteca di Chetam che afferma che dei suoi 19500 volumi in folio non sono di argomenti fruibili dal popolo. Quest’ultimo chiede ai bibliotecari “riviste frivole” come alla Tenison altrimenti non le consulta proprio come è il caso di quella del British Museum. Poi se aggiungiamo la difficoltà nell’ammissione alla consultazione e gli orari che spesso erano limitati a poche ore alla settimana, il quadro non era dei migliori. Si evince che ci doveva essere una mancanza di letture per le classi meno agiate e il fatto che non fosse previsto il prestito bibliotecario non aiutava. La London Library nel 1841 possedeva 470.000 volumi, ma nemmeno uno di uesti era adatto ad una biblioteca popolare.

In un panorama così limitato si sviluppano soluzioni diciamo alternative: nascono le biblioteche circolanti commerciali dove per una piccola quota di iscrizione ci si può aggiudicare il prestito per lettura di libri popolari (già all’inizio dell’800 nella city si contano una ventina di queste biblioteche). Parallelamente sorgono biblioteche simili dove, con il contributo di un penny derivante da una tassa dello stato, si comprano romanzi e altri libri popolari. Sorgono anche club di lettura fondati dalle più disparate classi sociali che si fanno interpreti della censura. E poi non vanno dimenticate le biblioteche parrocchiali dedicate al popolo con le loro collane di letture ad hoc.

Nel 1817, per iniziativa del mercante bibliofilo Samuel Brown di Haddington, sorge una biblioteca di iniziativa privata che avvia nel East Lothian creando una biblioteca circolante a sue spese con un meccanismo originale. I libri vengono divisi in 4 gruppi assegnati ad una zona per 2 anni; poi, a rotazione, vengono spostati alle altre tre zone. Funziona così bene questa iniziativa che in venti anni 2.380 libri vengono fatti circolare in 47 gruppi. Per quanto riguarda la loro composizione, i 2/3 dei volumi erano a carattere morale e religioso, mentre il resto erano libri pratici. La sua iniziativa funge poi da volano per altre iniziative simili: la Nothern Union of Mechanics Institute  dello Yorkshire crea una sua biblioteca.

Il 1827 segna un importante momento di riflessione: si avvia una inchiesta del “Westmister Review” sulle biblioteche pubbliche. Nel 1848 il bibliotecario Edwards della British Library svela le spaventose carenze dei servizi bibliotecari pubblici. Il 1849 la Commissione di inchiesta mette in luce, infatti, carenze negli orari di apertura delle biblioteche ed esclusività dell’utenza. Viene formulata una proposta migliorativa: con una tassa di mezzo penny da parte dei Comuni per ogni sterlina tassabile per erigere le biblioteche pubbliche con gli argomenti a favore che invitando i cittadini in biblioteca si sarebbe ridotta la criminalità e che vi fosse una grande voglia di cultura, anche se alcune amministrazioni apportarono una grande resistenza. La proposta passa alla camera dei Comuni per pochi voti ma solo quando i prezzi di libri e riviste calò si avviò il meccanismo. Molte erano le difficoltà iniziali per il fatto che non esistevano esempi: mancavano leggi quadro, vi erano pochi soldi per il libri, i bibliotecari erano sottopagati, le strutture non rispondevano ai problemi dell’alcolismo, si dovevano vincere i pregiudizi ottocenteschi sulla distrazione dal lavoro. Poi anche i bibliotecari erano impreparati su consigli da dare ed i prelievi eccessivi di romanzi creava tensioni. Il movimento delle biblioteche crearono più scompigli che benefici.

L’entità dell’utenza  varia molto da comune e da periodo: una media del 3-8% della popolazione sembra realistica. Un ultimo dato sugli scrittori letti: i ragazzi leggevano Ainsworth, Marryat, Henty, Cooper, Verne e Mayne Reid; le ragazze leggevano invece Mrs.Henry Wood, Miss Braddon e E.P.Roe.


[1] Richard D.Altick, La democrazia tra le pagine. La lettura di massa nell’Inghilterra dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1990

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Ancora sulle Biblioteche in età moderna

b) Un caso particolare:Giovanni Pietro Italiano[1] e la cella di fra Leandro[2]

 

Si tratteranno sinteticamente due casi curiosi che possono essere considerati indicativi della tendenza alle biblioteche in quegli anni. Daniele Gomarasia in “la biblioteca manoscritta di Giovanni Pietro Italiano: aggiornamento culturale e sogno enciclopedico” ci racconta la storia di una biblioteca privata del tutto singolare costituita intorno al 1600. Giovanni Pietro Italiano è un portiere di origini piacentino della cancelleria Segreta dello Stato di Milano a cavallo del 1600. Ci lascia tredici manoscritti autografi che redige anche in onore del Duca di Terranova, plenipotenziario a Milano per il re Filippo II di Spagna, al fine di ingraziarselo per ottenere la tanto agognata cittadinanza.

I testi sono composti da una miscellanea di altri testi: da Ordini da far servar per gli uschieri compila a margine una raccolta dei fatti più disparati ma che egli ritiene importanti che accadono in città. Ricopia ancora i Ragionamenti della libreria vaticana di Pansa e la aggiorna raccontando nel catalogo conclusivo come i Visconti che la ebbero in affidamento andarono in rovina a causa delle guerre cui parteciparono e continua affermando che, forse con una valutazione del tutto personale, che Federigo Borromeo avrebbe l’intenzione di ricostruirla e renderla più completa.

Infine nella ricopiatura della Historia Pontificale di Giovanni Francesco Besozzo del 1596 aggiunge una lode e una biografia di Carlo Borromeo arricchendo e completando a suo parere questa opera importante.

La caratteristica peculiare di questi quaderni di Giovanni Pietro Italiano è tutta nella sintesi che egli fa tra cultura codificata e quotidiana; egli si cura di una molteplicità di argomenti che lo appassionano anche se in particolare è la religione che lo vede coinvolto in onore di sua maestà il re cattolico Filippo II di Spagna. Ultima considerazione è quella che sottolinea l’unicità di questa figura del Seicento che, in maniera del tutto originale, forgia la sua biblioteca ideale tra aggiornamenti culturali ed enciclopedismo.

Un’altra figura di grande interesse nell’approccio allo studio del rapporto potere/biblioteca è quella ricordata da Giancarlo Petrella nel contributo Nella cella di fra Leandro: prime ricerche sui libri di Leandro Alberti umanista e inquisitore, utile per comprendere come in alcuni momenti questo rapporto fosse più complesso che in altri.

Il giovane Leandro, formato alla retorica ciceroniana da Giovanni Garzoni, ha una grande passione per la storia che coltiva anche grazie ai tesi di molti umanisti che gli fanno apprezzare il valore e il significato della geografia. Vagheggia di arricchire il mondo delle biblioteche scrivendo il “de viribus illustri bus ordinis praedicatorum” e più tardi “Ephemerides”. Si spinge molto avanti teorizzando che per diffondere il sapere e renderlo fruibile ai più è necessario operare la sua volgarizzazione. Così per realizzare questo ideale scrive la Descrittione d’Italia che egli considera come un’opera aperta che si prefigge di descrivere la geografia, di essere un compendio storico e un catalogo di uomini illustri ( prende in considerazione opere della classicità latina e greca).

E per adempiere a questa sua missione lavora nella biblioteca domenicana di san Domenico a Bologna che sarà poi dispersa nel 1798 per ordine di Napoleone. I libri poi prenderanno la strada della Francia. Quello che interessa è ora mettere brevemente a fuoco l’evoluzione del tutto particolare del catalogo della biblioteca di fra Leandro che troveremo citata per la prima volta in una nota di “Roma illustrata…”di Flavio Biondi e che racconta che le evoluzioni che la portarono dal ‘400 agli anni del frate domenicano vedono grossi cambiamenti: dall’influenza dell’umanesimo si giunge ai classici greci e latini per poi passare ad arricchimenti di opere storiche a quelle degli stessi umanisti. Fra Leandro dimostra di trovare così una sintesi tra il suo ruolo di inquisitore e quello di vivo umanista. Trasferisce questo alla biblioteca personale.


[1] Libri, biblioteche e cultura nell’Italia del Cinque e Seicento, a cura di E.Barbieri e D.Zardin, Milano, 2002

[2] Libri, biblioteche e cultura nell’Italia del Cinque e Seicento, op.cit.

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I perchè della cultura!

I perchè della cultura!

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28 marzo 2013 · 12:36

Libri a ottimi prezzi!

Pagina contenete libri di letteratura italiana del ‘900 e altre chicche. Provare per credere!

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27 marzo 2013 · 10:45

All’orto botanico di Skrudur il premio Scarpa

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26 marzo 2013 · 15:30

Biblioteche e potere/parte quinta – età moderna

Età moderna: a) tra Riforma e Controriforma

 

Nell’analizzare gli anni che vanno tra il Cinquecento ed il Seicento ci si trova di fronte ad una eterogenea raccolta di testimonianze sul rapporto tra cultura/biblioteche e potere. Sembra utile analizzare a tal proposito dei cammei indicativi comunque di tutta una tendenza.

Ora trattiamo di una biblioteca religiosa, quindi di servizio ad un convento.

Un primo significativo esempio lo troviamo nel volume di Ugo Rozzo[1] dove al capitolo V intitolato Pio V e la biblioteca di Santa Croce in Bosco Marengo, affronta la costituzione della chiesa e del convento domenicano annesso e di una immancabile “luculentam…egregieque instructam bibliothecam”.  Pio V, al secolo Michele Ghisleri (1504-1572), è una figura di primo piano nei travagliati anni della Controriforma; fervente antiebraico, commissario generale dell’Inquisizione romana, è famoso per avere istituito nel1571 la “congregazione dell’Indice” che ha come scopo di censurare i libri considerati non educativi o lesivi della cristianità.

Papa Ghisleri istituisce il complesso di Bosco con una Bolla del 1 Agosto 1566, mentre già dal 1567 si inizia la costruzione della biblioteca: il papa stesso si preoccupa in prima persona della dotazione della libreria del convento ed è solo lui a deciderne la dotazione dei volumi. Circa la composizione della biblioteca ci vengono in aiuto le lettere raccolte nell’VIII volume delle “Nunziature di Venezia”.

I dati che emergono da questa consultazione ci dicono in primo luogo che Pio V non vuole assolutamente che gli vengano proposti impressori dannati; la lista si presenta di difficile compilazione perché la biblioteca nel corso del tempo ha subito significative dispersioni; infine egli chiede che gli vengano proposte acquisizioni di libri legati a determinate località di stampa. Fatte queste considerazioni il Pontefice mette sulla carta il contenuto della biblioteca tra il 1568 ed 1572 affidandosi per la parte economico-pratica al cardinale Bonelli che fissa la spesa obbligatoria in libri  in 100 scudi annuali, ma trova di difficile soluzione lo stabilire l’ordine di importanza nell’acquisto dei libri ed in secondo luogo nota la difficoltà presentata dall’ampliamento della biblioteca. Oggi disponiamo però di quattro elenchi su cui basarci nel ricostruire come queste scelte furono prese: 1.Un primo testo intitolato “Libreria grande” è della metà dell’ottocento e presenta i libri in ordine alfabetico; 2.Un secondo chiamato “Libreria piccola”è simile al precedente ma non da indicazione della collocazione dei libri; 3.Un’altro indice del 1845 è rilegato in quinterni di formato protocollo; 4.Infine, e siamo nel 1860, un vero e proprio catalogo che indica, all’epoca, la presenza di 2296 volumi. L’esistenza del convento e della sua biblioteca termina con la sua soppressione da parte dello stato unitario il 13/01/1861 ad opera di un Regio Decreto. Il patrimonio librario viene in parte alienato, e in parte trasferito al convento di San Domenico di Chieri.

Ora passando ad analizzare la composizione emersa dai registri sopra citati, notiamo che le letture presenti fossero quelle di Aristotele e altri classici, Calepini, la Bibliotheca sancta, Severino Boezio, i Padri della chiesa in gran numero, ma notevole è anche la presenza di edizioni “moderne”. Non potevano mancare i libri religiosi. Andando nel dettaglio osserveremo che per quanto riguarda le legature non tutti i libri in biblioteca sono dotati di stemma papale sul frontespizio. Le legature con lo stemma di Pio V sono un San Bonaventura (Roma, 1569), un San Leone Magno (Lovanio, 1566), San Giovanni Crisostomo (Parigi, 1545). I cataloghi di Chieri sono incompleti a causa della sottrazione di numerose opere, il loro smarrimento o il fatto che comunque venissero saccheggiate. Resta il fatto che tutti i cataloghi citati possono darci utili indicazioni sul contenuto della biblioteca: vi sono 14 incunaboli, 2 opere non databili, 166 cinquecentine anteriori al 1573, 80 databili fino al 1598 anno di morte del cardinale Bonelli.

Altra nota degna di rilievo  è che la biblioteca di Bosco contiene la biblioteca privata di Pio V che alla sua morte assegna come legato al convento e che per certi versi stupisce. E’composta da: 6 Bibbie; 15 volumi di autori domenicani; Padri della chiesa; teologia scolastica; ascetica e morale; teologi e controversisti; pochi volumi di diritto e canonistica; alcuni filosofi; molti volumi di cultura greco-latina; studio dell’antichità; molti volumi del Rinascimento italiano; molti volumi di storia antica e moderna; testi scientifici e tecnici; poi vi sono delle vere sorprese e cioè la presenza di Erasmo e del della Porta (Erasmo era stato censurato nel 1559 proprio dal Sant’Uffizio di Roma). Inoltre vi sono molte edizioni straniere comprate dal pontefice stesso. Dato interessante è che Venezia è presente con 66 opere edite nella città.

A questo punto è obbligatorio fare una osservazione sul fatto che il papa che istituì l’indice, utilizzò la censura con l’estero ma per sé comprò molte delle opere “proibite”. E tale fenomeno se da un lato è indice di una volontà di apprendere dai libri posti all’indice dall’altro indica la volontà di valutare libri impegnativi.

Alla morte del pontefice avvenuta nel 1572 le acquisizioni a Bosco furono continuate focalizzando gli acquisti sui Padri della Chiesa e sui teologi scolastici, in accurate edizioni straniere, nonché classici latini e greci e studi sull’antichità.

Concludendo possiamo riassumere quanto analizzato finora affermando che se da un verso, in linea generale, la biblioteca ha si settori religiosi e filosofici, ma anche una spiccata apertura verso le novità sul panorama editoriale; è pur sempre vero che la “libraria” domenicana è stata istituita perché serva alla predicazione e alla preghiera; infine, cosa degna della più alta attenzione, il monastero tra le sue mura contiene libri proibiti poiché Pio V sosteneva che i domenicani potessero farne una giusta valutazione (indice di questa affermazione il fatto che il convento possedesse un libro come l’Orlando Furioso).


[1] Ugo Rozzo, Biblioteche italiane del Cinquecento tra Riforma e Controriforma, Udine,1994.

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Biblioteche e Potere/parte quarta

Bisanzio. Il Basileus dotto: l’importanza della cultura per il governante[1]

 

La tematica della biblioteca collegata al potere è di centrale importanza per quanto riguarda l’età bizantina. Il retore Libanio, figura prestigiosa del IV secolo d.C., sottolinea nell’epitaffio composto per Giuliano, imperatore tra il 361 e il 363 d.C., la dote di grande studioso dello stesso. Rammenta come Egli comprava i suoi discorsi scritti per studiarli e migliorare l’arte della retorica. Accanto a Giuliano possiamo porre la figura di Anna Comnena, figlia porfirogenita di Irene Ducas e Alessio Comneno (1081-1118) che affianca alle letture sacre, doverose per un regnante, quelle che all’epoca venivano definite cultura profana, e che altro non erano se non la lettura di libri di grammatica  e letture classiche. A queste due figure, comunque uniche tra quelle regnanti a Costantinopoli, sembra giusto affiancare quella di Giuliano L’Apostata, sovrano di immensa cultura, per il tentativo di restaurazione pagana. Egli spicca sin da giovane per la sua passione per la retorica e per i classici che trasformò ben presto in progetto culturale e ideologico di vasta portata, che lo vide lottare per un ritorno dell’ellenismo globale.

Questa premessa impone la seria riflessione se sia opportuno che il governante debba essere dotto o meno ( se inoltre sia confacente ad esso la paideia ). La storia dell’impero bizantino con i suoi 1.123 anni di sviluppo cronologico ( 491-1453 d.C.) vede il succedersi di ben 88 sovrani di vario livello culturale e di conseguenza di differenti atteggiamenti rispetto alla diffusione della conoscenza anche attraverso le biblioteche. Se Giustino I ( 518-527 ) era un analfabeta e Michele II ( 820-820) era a stento in grado di leggere, troviamo altri basileus di alto spessore culturale addirittura autori di opere di notevole pregio: Leone VI (886-912), Costantino VII (913-959), Teodoro II Lascaris (1254-1258), Giovanni VI Cantacuzeno (1347-1354), Manuele II Paleologo (1391-1425).

Prendiamo in considerazione esempi estremi di questa tendenza. Giustino I, zio di Giustiniano cultore delle lettere, non fu letteralmente in grado di tenere una penna in mano. Alcune testimonianze riportano che per apporre la propria firma ad un documento, fosse costretto ad adoperare una tavoletta con inciso il suo nome che ricalcava a penna all’interno degli intagli che riportavano le quattro lettere di approvazione: “legi”. Ovviamente il suo regno non fu segnato da una esplosione culturale.

Di ben altra fatta furono Leone VI e Costantino VII. Leone VI figlio dell’illetterato Basilio II, fondatore della dinastia macedone, ebbe una solida istruzione e produsse valide opere letterarie tanto da valergli il titolo di Sophos, “Sapiente”. Suo figlio Costantino VII fu un noto bibliofilo e collezionò libri costituendo una cospicua biblioteca.

A questo punto però, sarà utile accennare ad alcuni ideali e modelli cui si doveva ispirare il basileus. Primo fra essi il principio in base al quale il sovrano deve perseguire “l’imitazione di Dio”. Il basileus deve applicare una serie di principi ispirati dal modello divino tra cui quelli che in base alla dottrina della sovranità, di antica tradizione, fanno del sovrano un philosophos. A tal proposito Agapeto istituisce un sillogismo per il quale, posto che la sapienza, sophia, porti alla filosofia, e che base della sophia sia il timor di Dio, chi è timorato di Dio è filosofo e la filosofia stessa coincide con il timor di Dio. Questo rappresenta un momento cruciale, un turnig point, che vede passare la perfezione del basileus dalla perfezione etica alla paideia, la cultura. Così si giustificano una serie di comportamenti successivi. Nel caso di Giustino I l’apaideusia viene completamente cancellata, creando ad hoc una serie di leggende ed encomi che lo mettessero in risalto trascurando la sua levatura culturale. Ma restano comportamenti di forte dissenso in altri casi evidenziati. Teodorico, re degli Ostrogoti, assegna alla figlia Amalasunta tre Goti anziani che sapeva essere saggi e costumati; gli altri Goti accusarono il re e attaccarono la figlia asserendo che le lettere siano quanto di più lontano dalla virilità di un uomo e a maggio ragione di un sovrano.

Comunque, il comportamento di massima da parte dei bizantini, fu quello di sentirsi eredi diretti dei greci per quanto riguardava la cultura. La sua salvaguardia ebbe a Bisanzio un peso eccezionale  e concreto, tanto che la classe dirigente non poteva esimersi dall’istruzione ed anzi gli studi non rimasero mai circoscritti ad elites ristrette di intellettuali. La cultura anziché isolare, come era frequente in altre società, tese ad unire ed integrare, in quanto indispensabile per trovare una ottima collocazione all’interno della struttura burocratica dello Stato. Vi era a Bisanzio un elevato grado di istruzione e anche i più poveri venivano alfabetizzati su tutto il territorio dell’Impero.  Da Teodosio II, promotore di un grado elevato di insegnamento nel 425, alla istituzione di una università di alto livello nel 1045 da parte dell’imperatore Costantino IX Monomaco ( 1042-1045 ) da cui è difficile vedere scissa la costituzione di numerose biblioteche affiancate per la diffusione del sapere, si giunge all’apporto alla vita culturale di figure di primo livello come Michele Psello e Giovanni Xifilino. Cultura ed educazione sono sembrate connotato conveniente e caratterizzante per un basileus, e possiamo credere che lo fossero anche se in misura via via minore per gli alti dignitari dello stato e per il popolo.

Si ritrova a tal proposito nei sessantasei Capitoli parenetici al figlio Leone una affermazione importantissima dichiarazione di intenti e programma di vita: “L’educazione è cosa utile alla vita e di primaria importanza, non solo per gli imperatori, ma anche per le persone comuni. A chi infatti la possiede reca i più grandi vantaggi…”. Questa dichiarazione non rimane però isolata, poiché tra il XIII ed il XIV secolo Tommaso Magistro indirizza all’imperatore Andronico II Paleologo (1282-1328) una orazione Sulla regalità dedicata al felice matrimonio tra cultura e buon governo. Continua Tommaso affermando che i sudditi così imitando il sovrano si dedicheranno al sapere facendo così dell’impero un luogo di Muse e focolare delle lettere nonchè luogo di incontro di ogni forma di sapienza.

Su che tipo di Istruzione impartire al sovrano ci viene incontro il concetto di opheleia, “utilità”. Infatti a Bisanzio il sovrano studia ciò che è utile e all’insegna dell’utile impiega ciò che ha appreso. L’educazione produce i massimi vantaggi specialmente per il sovrano. E si invita il basileus a formarsi sui libri di storia antica dove troverà senza fatica le imprese compiute dagli altri e potrà trarne giovamento per il governo.

A queste indicazioni poi risponde in maniera piena la produzione specifica letteraria degli imperatori di Bisanzio. Molti scritti, utilizzati dai successori e dagli intellettuali, riguardano la teologia. Ma si compongono inoltre, in base alla norma dell’opheleia, opere più strettamente connesse alla cultura profana e alla gestione dello Stato. Nel campo della storiografia troviamo opere significative della porfirogenita Anna Comnena e del marito Niceforo Brennio. Giovanni VI Cantacuzeno in quattro libri darà le fonti più veritiere e complete sulla storia bizantina.  Costantino VII Porfirogenito nel De Thematibus si occupa dell’amministrazione delle province dell’impero. E molti altri potrebbero essere citati. Anche la trattatistica militare vede opere eccelse come quelle di Costantino VII, padre di Leone VI (886-912), o di Nicefioro di Foca (963-969) e infine uno dei più alti manuali di strategia compilato da Maurizio (582-602).

Con queste considerazioni possiamo concludere che Bisanzio fu una civiltà libresca, ed il fatto che il basileus dia molta importanza a tale prerogativa fa si che un imperatore bizantino rispetto ad uno barbaro porti addirittura con se i libri in battaglia consapevole della grande utilità del gesto. Libanio, parlando di Giuliano l’Apostata ricorda proprio questo. Ed è sicuramente deducibile che questi comportamenti possano avere influenzato il popolo nella ricerca della paideia ( la fonte presa in considerazione non cita però esplicitamente la presenza di biblioteche pubbliche anche se è verosimile credere ad una loro presenza sul territorio dell’impero ).


[1] A.M.Taragna, Il trono e la penna: imperatori dotti a Bisanzio, “Humanitas”, n.s.58.1, pp.22-43

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La dualità Biblioteca/Potere: dalle origini all’età contemporanea/terza parte

L’Età romana: nascita della biblioteche a Roma[1]

 

Convenzionalmente, le Leggi delle XII tavole (451-450 a.C.) sono considerate il primo libro apparso sul proscenio di Roma. A dire il vero non ci sono indicazioni sulla presenza di libri a Roma nel V secolo a.C. Quello che con certezza si può affermare è che i libri presenti a Roma furono per lungo tempo gli annali massimi compilati dai pontefici, i libri rituali, infine i testi sibillini. Possiamo anche affermare la presenza di traduzioni svolte dai primi autori come Livio Andronico, Terenzio, Plauto, Nevio, più che altro di testi teatrali. Nelle città greche dell’Italia meridionale poi, dovevano certamente essere presenti libri greci usati nelle scuole o nei teatri.

Se consideriamo alcuni autori citati, troveremo Plauto che nel prima del 218 a.C. si trasferisce a Roma dove mette in atto opere teatrali perché da attore diviene commediografo. Si cita poi il caso di Terenzio che sarebbe morto naufrago mentre trasferiva dalla Grecia all’Italia un carico di testi importante di commedie menandree. Questo fatto importante è indice di dove i comici romani trovassero raccolte di commedie da tradurre e mettere in scena, e ci indica il fatto che vi fosse un certo afflusso di testi in quel di Roma.

Possiamo allora dire che l’abitudine di raccogliere e conservare libri a Roma fosse una abitane che prese piede tra il III e il II secolo a.C. Alcuni episodi supportano questa teoria. Dai ritrovamenti dei cosiddetti libri di Numa (181 a.C.), alle prime razzie di libri per diritto di conquista ( dopo Pidna 168 a.C.), al fatto pure molto significativo che Polibio, alla stregua di Scipione Emiliano, abbia potuto copiare moltissimi testi greci per comporre il suo testo di storia, ed infine il fatto della presenza nelle Origines  di Catone di molte fonti greche (composte tra il 160 e il 150 a.C.) ci comunicano che la diffusione dei libri poi raccolti in biblioteche dovesse essere in Roma un evento più che sporadico. Il rinvenimento dei “libri di Numa” è l’evento più memorabile secondo la recente storiografia. Si tratta di una serie di rotoli di papiro di foglie di cedro appartenuti a re Numa Pompilio (715 a.C.). Generano ancora ampie discussioni sulla numerosità e sulla tipologia del documento. La diatriba è dovuta a l fatto che nella Roma arcaica, vi era un carattere chiuso e oracolare del sapere fondamentale che era incarnato da sacerdoti e interpreti. Così il collegio dei pontefici, detentore e interprete della giurisprudenza, rappresenta la casta che conserva i libri fondamentali che sono pochi ma soprattutto segreti, e i responsi sono orali e oracolari.

Ovviamente ci sono differenti ambienti dove uso di scrittura e del libro si manifestano. Oltre al mondo sacrale e ufficiale il libro è diffuso, lo abbiamo detto, nel mondo del teatro. Il maggior numero di libri è appannaggio delle classi elevate. Si vedano le testimonianze che si concentrano sulla cerchia degli Scipioni che intrattengono rapporti di alta cultura tramite Scipione Emiliano ed Emilio Paolo con il commediografo Terenzio che spesso scambia con loro libri che suscitano piacevoli conversazioni. E Roma è in costanti e crescenti rapporti culturali e librari con importanti città ricche di libri greci: Taranto, Siracusa e Cartagine. Gli autori romani, poi, riflettono su una tradizione letteraria in lingua latina.

Non sono comunque presenti a Roma biblioteche pubbliche. Le prime biblioteche che si possono definire tali, sono quelle private di grandi signori romani. E hanno origine dai tre conquistatori dell’oriente: Emilio Paolo, 168 a.C., Silla, 86 a.C. e Lucullo 71/70 a.C. Sono tutte e tre ovviamente composte da testi greci.  Emilio Paolo ha il primato di avere costituito a Roma la prima biblioteca privata: costituita dal bottino di guerra dopo la vittoria di Pidna, dove sconfigge Perseo, ultimo sovrano di Macedonia, secondo la testimonianza di Catone sembra che costituissero la biblioteca greca per i figli lettori incalliti.  La seconda biblioteca di questo genere è quella di Silla, che con la resa di Atene (86 a.C.) depredò la magnifica biblioteca Apellicone di Teo, bibliofilo e filosofo peripatetico, tra i quali libri troviamo i Pragmateiai di Aristotele  e della biblioteca di Teofrasto. Cosa rappresenti un evento come questo per la cultura romana è noto: vi è una irruzione di Aristotele e dei grandi trattati nella cultura filosofica romana che trova in Cicerone il più grande divulgatore del pensiero greco in lingua latina. Per inciso la Biblioteca di Cicerone è ricca sia di testi greci che di traduzioni in latino che rappresenta all’epoca un segno di distinzione che mette in primo piano il conoscitore (54 a.C. circa). La terza ricca biblioteca è quella di Lucullo che nella guerra contro Mitridate  (70/71 a.C.) depreda la sua reggia più importante tanto da costituirsi una biblioteca fantastica: nota di merito di Lucullo è che la costituita biblioteca fu messa a disposizione di amici e di dotti riproducendo in piccolo certi tratti delle biblioteche ellenistiche. Plutarco nella vita di Lucullo (cap.42) racconta di passeggiate  (peripatoi) e della presenza di scholastéria per ospitare i dotti.

Si potrebbero citare molte altre biblioteche private in Roma ( Catona a Tusculo, Varrone, Attico, Cornelio Nepote, quella dei Pisoni ad Ercolano)  ma è necessario qui indicare il momento di cesura con la tradizione e l’istituzione della prima biblioteca pubblica a Roma: quella di Asinio Pollione (76 a.C. – 5 d.C.). Asinio Pollione porta a compimento il progetto vagheggiato da Cesare prima dell’assassinio che disegna una biblioteca pubblica a Roma sul modello di quella di Alessandria che deve superare due scogli della città eterna: il fatto della autosufficienza libraria del ceto elevato e l’esitazione da parte dei grandi potenti, ad investire in simili imprese il proprio prestigio. Così come per l’ellenismo la costituzione della biblioteca doveva segnare un aspetto della regalità, per il potente romano rappresentava una affermazione del personale prestigio politico pubblico. A  Varrone viene affidato il compito della sua costituzione: per la prima volta si tenta di creare una raccolta libraria della letteratura in lingua latina. Marrone infatti, aveva ricevuto da Cesare il compito di rendere accessibili al pubblico quanto più possibile le biblioteche e aveva affidato il compito a Varrone di apprestare il materiale e di classificarlo. Ciò si era realizzato con la copiatura di schiavi librarii degli esemplari già esistenti in circolazione. Asinio Pollione orna in maniera fastosa l’atrium della biblioteca con busti di marmo tra cui compare, grandissimo onore perché ancora in vita, quello di Varrone. IL “bottino” rappresenta sempre la parte cospicua che arricchisce la biblioteca. Quello estorto ai Partini, arricchirà l’atrium con un gruppo di Dirce Amfione e Zeto. Ecco che il bottino de manubis rappresenta in senso lato le ricchezze, derivate da guerre civili spoliazioni ecc., da cui Asinio attinge per edificare la biblioteca non per i libri. La biblioteca di Asinio, l’atrium libertatis,  sarebbe durata fino e non oltre al 69 d.C. anno nel quale le truppe germaniche nell’anno “dei quattro imperatori”, si acquartierano proprio in quel luogo.

Per un certo tempo con la biblioteca di Asinio convive quella fondata da Augusto sul Palatino. Anche in questo caso i testi messi a disposizione sono i greci e i latini. La biblioteca viene eretta a fianco del tempio di Apollo. Gli scaffali hanno sede nel portico che è così vasto da potervi radunare il Senato.

La funzione della biblioteca pubblica è quella di controllare la lettura quindi di censura. Augusto autorizza la accessibilità agli scritti giovanili di Cesare ma ad esempio esclude gli scritti di Ovidio . L’Ars amandi è stata radiata , i Tristia pure. IL procedimento della censura è caratterizzato all’epoca di Augusto nella riduzione dell’autore in disgrazia al rango di non-persona: di lui e delle sue opere non si deve parlare. E’come non fosse mai esistito.

Un ultimo punto degno di nota è poi quello del ruolo del bibliotecario che se da un lato si trova anche a gestire la corrispondenza privata dell’imperatore, dall’altro deva essere molto abile perché vi è una alta codificazione del materiale.


[1] L.Canfora, Nascita delle Biblioteche a Roma, “Sileno”19, 1993, pp. 25-38.

 

Convenzionalmente, le Leggi delle XII tavole (451-450 a.C.) sono considerate il primo libro apparso sul proscenio di Roma. A dire il vero non ci sono indicazioni sulla presenza di libri a Roma nel V secolo a.C. Quello che con certezza si può affermare è che i libri presenti a Roma furono per lungo tempo gli annali massimi compilati dai pontefici, i libri rituali, infine i testi sibillini. Possiamo anche affermare la presenza di traduzioni svolte dai primi autori come Livio Andronico, Terenzio, Plauto, Nevio, più che altro di testi teatrali. Nelle città greche dell’Italia meridionale poi, dovevano certamente essere presenti libri greci usati nelle scuole o nei teatri.

Se consideriamo alcuni autori citati, troveremo Plauto che nel prima del 218 a.C. si trasferisce a Roma dove mette in atto opere teatrali perché da attore diviene commediografo. Si cita poi il caso di Terenzio che sarebbe morto naufrago mentre trasferiva dalla Grecia all’Italia un carico di testi importante di commedie menandree. Questo fatto importante è indice di dove i comici romani trovassero raccolte di commedie da tradurre e mettere in scena, e ci indica il fatto che vi fosse un certo afflusso di testi in quel di Roma.

Possiamo allora dire che l’abitudine di raccogliere e conservare libri a Roma fosse una abitane che prese piede tra il III e il II secolo a.C. Alcuni episodi supportano questa teoria. Dai ritrovamenti dei cosiddetti libri di Numa (181 a.C.), alle prime razzie di libri per diritto di conquista ( dopo Pidna 168 a.C.), al fatto pure molto significativo che Polibio, alla stregua di Scipione Emiliano, abbia potuto copiare moltissimi testi greci per comporre il suo testo di storia, ed infine il fatto della presenza nelle Origines  di Catone di molte fonti greche (composte tra il 160 e il 150 a.C.) ci comunicano che la diffusione dei libri poi raccolti in biblioteche dovesse essere in Roma un evento più che sporadico. Il rinvenimento dei “libri di Numa” è l’evento più memorabile secondo la recente storiografia. Si tratta di una serie di rotoli di papiro di foglie di cedro appartenuti a re Numa Pompilio (715 a.C.). Generano ancora ampie discussioni sulla numerosità e sulla tipologia del documento. La diatriba è dovuta a l fatto che nella Roma arcaica, vi era un carattere chiuso e oracolare del sapere fondamentale che era incarnato da sacerdoti e interpreti. Così il collegio dei pontefici, detentore e interprete della giurisprudenza, rappresenta la casta che conserva i libri fondamentali che sono pochi ma soprattutto segreti, e i responsi sono orali e oracolari.

Ovviamente ci sono differenti ambienti dove uso di scrittura e del libro si manifestano. Oltre al mondo sacrale e ufficiale il libro è diffuso, lo abbiamo detto, nel mondo del teatro. Il maggior numero di libri è appannaggio delle classi elevate. Si vedano le testimonianze che si concentrano sulla cerchia degli Scipioni che intrattengono rapporti di alta cultura tramite Scipione Emiliano ed Emilio Paolo con il commediografo Terenzio che spesso scambia con loro libri che suscitano piacevoli conversazioni. E Roma è in costanti e crescenti rapporti culturali e librari con importanti città ricche di libri greci: Taranto, Siracusa e Cartagine. Gli autori romani, poi, riflettono su una tradizione letteraria in lingua latina.

Non sono comunque presenti a Roma biblioteche pubbliche. Le prime biblioteche che si possono definire tali, sono quelle private di grandi signori romani. E hanno origine dai tre conquistatori dell’oriente: Emilio Paolo, 168 a.C., Silla, 86 a.C. e Lucullo 71/70 a.C. Sono tutte e tre ovviamente composte da testi greci.  Emilio Paolo ha il primato di avere costituito a Roma la prima biblioteca privata: costituita dal bottino di guerra dopo la vittoria di Pidna, dove sconfigge Perseo, ultimo sovrano di Macedonia, secondo la testimonianza di Catone sembra che costituissero la biblioteca greca per i figli lettori incalliti.  La seconda biblioteca di questo genere è quella di Silla, che con la resa di Atene (86 a.C.) depredò la magnifica biblioteca Apellicone di Teo, bibliofilo e filosofo peripatetico, tra i quali libri troviamo i Pragmateiai di Aristotele  e della biblioteca di Teofrasto. Cosa rappresenti un evento come questo per la cultura romana è noto: vi è una irruzione di Aristotele e dei grandi trattati nella cultura filosofica romana che trova in Cicerone il più grande divulgatore del pensiero greco in lingua latina. Per inciso la Biblioteca di Cicerone è ricca sia di testi greci che di traduzioni in latino che rappresenta all’epoca un segno di distinzione che mette in primo piano il conoscitore (54 a.C. circa). La terza ricca biblioteca è quella di Lucullo che nella guerra contro Mitridate  (70/71 a.C.) depreda la sua reggia più importante tanto da costituirsi una biblioteca fantastica: nota di merito di Lucullo è che la costituita biblioteca fu messa a disposizione di amici e di dotti riproducendo in piccolo certi tratti delle biblioteche ellenistiche. Plutarco nella vita di Lucullo (cap.42) racconta di passeggiate  (peripatoi) e della presenza di scholastéria per ospitare i dotti.

Si potrebbero citare molte altre biblioteche private in Roma ( Catona a Tusculo, Varrone, Attico, Cornelio Nepote, quella dei Pisoni ad Ercolano)  ma è necessario qui indicare il momento di cesura con la tradizione e l’istituzione della prima biblioteca pubblica a Roma: quella di Asinio Pollione (76 a.C. – 5 d.C.). Asinio Pollione porta a compimento il progetto vagheggiato da Cesare prima dell’assassinio che disegna una biblioteca pubblica a Roma sul modello di quella di Alessandria che deve superare due scogli della città eterna: il fatto della autosufficienza libraria del ceto elevato e l’esitazione da parte dei grandi potenti, ad investire in simili imprese il proprio prestigio. Così come per l’ellenismo la costituzione della biblioteca doveva segnare un aspetto della regalità, per il potente romano rappresentava una affermazione del personale prestigio politico pubblico. A  Varrone viene affidato il compito della sua costituzione: per la prima volta si tenta di creare una raccolta libraria della letteratura in lingua latina. Marrone infatti, aveva ricevuto da Cesare il compito di rendere accessibili al pubblico quanto più possibile le biblioteche e aveva affidato il compito a Varrone di apprestare il materiale e di classificarlo. Ciò si era realizzato con la copiatura di schiavi librarii degli esemplari già esistenti in circolazione. Asinio Pollione orna in maniera fastosa l’atrium della biblioteca con busti di marmo tra cui compare, grandissimo onore perché ancora in vita, quello di Varrone. IL “bottino” rappresenta sempre la parte cospicua che arricchisce la biblioteca. Quello estorto ai Partini, arricchirà l’atrium con un gruppo di Dirce Amfione e Zeto. Ecco che il bottino de manubis rappresenta in senso lato le ricchezze, derivate da guerre civili spoliazioni ecc., da cui Asinio attinge per edificare la biblioteca non per i libri. La biblioteca di Asinio, l’atrium libertatis,  sarebbe durata fino e non oltre al 69 d.C. anno nel quale le truppe germaniche nell’anno “dei quattro imperatori”, si acquartierano proprio in quel luogo.

Per un certo tempo con la biblioteca di Asinio convive quella fondata da Augusto sul Palatino. Anche in questo caso i testi messi a disposizione sono i greci e i latini. La biblioteca viene eretta a fianco del tempio di Apollo. Gli scaffali hanno sede nel portico che è così vasto da potervi radunare il Senato.

La funzione della biblioteca pubblica è quella di controllare la lettura quindi di censura. Augusto autorizza la accessibilità agli scritti giovanili di Cesare ma ad esempio esclude gli scritti di Ovidio . L’Ars amandi è stata radiata , i Tristia pure. IL procedimento della censura è caratterizzato all’epoca di Augusto nella riduzione dell’autore in disgrazia al rango di non-persona: di lui e delle sue opere non si deve parlare. E’come non fosse mai esistito.

Un ultimo punto degno di nota è poi quello del ruolo del bibliotecario che se da un lato si trova anche a gestire la corrispondenza privata dell’imperatore, dall’altro deva essere molto abile perché vi è una alta codificazione del materiale.


[1] L.Canfora, Nascita delle Biblioteche a Roma, “Sileno”19, 1993, pp. 25-38.

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Philippe Daverio per un nuovo umanesimo

Vi segnalo volentieri il link: http://www.informazione.tv/index.php?action=index&p=337&art=41588#.UUrkm9Qgv3i  dove potrete tovare più di uno spunto di riflessione.

Buona lettura!

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La dualità Biblioteca/Potere: dalle origini all’età contemporanea/seconda parte

imagesLa Biblioteca di Alessandria

 

Fatta questa indispensabile ma sintetica premessa, affrontiamo ora in ottica temporale l’evoluzione della struttura biblioteca leggendo l’evento alla luce del rapporto che intercorre con il palazzo del potere.

Le Biblioteche di Alessandria e Pergamo sono le due più grandi biblioteche espressione del mondo ellenistico che si sviluppa tra il 323 a.C., anno della morte di Alessandro magno ( precursore di tutta una serie di contatti e intrecci culturali con l’Asia e l’Egitto e patrocinatore di un incontro culturale tra greci e mondo orientale[1]) e termina con la conquista romana del Regno tolemaico d’Egitto (battaglia di Azio del 31 a.C.) che porta l’oriente nell’orbita romana occidentale. L’ellenismo ha come tema fondate quello della regalità, che ritroveremo spesso nei testi raccolti nelle biblioteche: essi infatti vanno dalle idee sulla regalità, alla funzione normativa del sovrano, da come si esercita la guida dell’esercito, ai titoli che propongono una identificazione tra sovrano e stato. Questo trend si concluderà poi tra il II e il I secolo a.C., per finire formalmente nel 31 a.C. con la vittoria di Cesare ad Azio su Antonio e Cleopatra e con la fine della dinastia dei Tolomei. L’ellenismo qui trova il suo epilogo

La biblioteca di Alessandria è fondata da Tolomeo II il Filadelfo (285-246 a.C.) che non solo la istituisce ma, in virtù della regalità, ne aumenta anche la dotazione di libri. La cultura della biblioteca sarebbe iniziata secondo Strabone dall’insegnamento che Aristotele avrebbe portato presso i faraoni d’Egitto su come ordinare i libri in biblioteca, “l’ordinamento bibliotecario”. Il mediatore di questa cultura fu però Demetrio Falereo che fece da vera e propria cerniera tra Atene ed Alessandria. In Egitto, recatosi presso Tolomeo Soter (322-283 a.C.), padre del Filadelfo, avrebbe esortato il sovrano ad acquisire libri sulla regalità e sul comando. La riproposizione, ogni volta, a vantaggio del sovrano regnante delle benemerenze dei suoi predecessori è un’eredità dell’ideologia faraonica del potere e una costante che con la biblioteca di Alessandria trova una conferma. Demetrio funge poi da preposto alla biblioteca regia ma anche aggiorna il sovrano sui quantitativi di rotoli che dovrebbero passare dagli iniziali 200.000 a 500.000 nel minor tempo possibile.

La struttura, annessa al Museo, era gestita da un προστάτης (sovrintendente), ruolo di grande autorità. Il sovrintendente era nominato direttamente dal re. Questi dirigeva una squadra di preparatissimi grammatici e filologi che avevano il compito di annotare e correggere i testi delle varie opere. Di ciascuna opera si redigevano delle edizioni critiche, che venivano poi conservate all’interno della Biblioteca. Si suppone che al tempo di Filadelfo i rotoli conservati fossero circa 490.000 (quando non bastò più lo spazio, venne costruita una seconda struttura, la Biblioteca del Serapeo).

Il Filadelfo adotta tutta una serie di azioni volte all’arricchimento e valorizzazione della sua biblioteca. In primo luogo ordina di ricopiare tutti i libri sottratti alle navi facenti scalo nei porti egiziani trattenendo l’originale e restituendo le copie ai legittimi proprietari. Ma si impegna anche, grazie al suo prestigio, facendo anche un appello a tutti i sovrani con cui è in contatto affinché donino libri alla biblioteca. Il faraone, ma comunque tutti i Tolomei poi, si contraddistinguono per una smania morbosa di traduzioni dei testi entrati in loro possesso. Ovviamente il greco è la lingua prescelta perché è usata dalla classe colta anche se esigua nel numero come idioma distintivo, classe dominante che sovrasta con la propria cultura tutti i popoli indigeni. Ma questo meccanismo ne mette in moto un altro: se i dominatori spingono all’uso del greco per farsi comprendere dai dominati, a questi ultimi non resta che prendere atto che per interagire non resta che usare tale lingua. In tal modo la classe dominante consolida il suo dominio grazie all’uso di una lingua ufficiale. E grazie all’uso del greco ed alle sue traduzioni, è stato possibile avere un arricchimento della dotazione della biblioteca. Teniamo conto che il patrimonio librario nel III a.C. constava di 400.000 libri, 90.000 papiri, mentre la biblioteca esterna, il Serapeum, fondata dal Filadelfo per agevolare la pubblica lettura, ne comprendeva 42.800. Il Serapeo era la biblioteca esterna al Museo costituita da scarti librari di quest’ultimo, diremo per uso dei profani. Così il Museo era la casa degli studiosi e dotti, che non solo lo abitavano, ma ricevevano pure emolumenti da parte del sovrano. I lettori si possono così suddividere in due classi: i colti che si scambiano le richieste dei libri, e gli incolti che redigono lettere o copiano brani di autori noti. La biblioteca nel mondo ellenistico ha così il duplice scopo di essere un luogo di raccolta dei libri e del loro scambio, ma anche un prezioso laboratorio che cura i libri. La storia della Biblioteca è assai lunga e passa più momenti di devastazione e di perdite incalcolabili. Per citare i momenti più significativi: tra il 48 e 47 a.C. la guerra di Alessandria provoca una prima significativa distruzione del materiale librario. Ma vi sono anche momenti più felici: Domiziano conscio dei danni arrecati alla Biblioteca la risarcirà dei danni subiti. Poi nel 47°a.C. vi è l’incendio fatale (secondo Tito Livio) con una perdita di 40.000 volumi. La distruzione del Museo avviene definitivamente ad opera dell’Imperatore Aureliano tra il 270 e il 275 d.C.


[1] B.Virgilio, Lancia Diadema e porpora. Il re e la regalità ellenistica, Pisa, 2003

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